il richiamo luglio '18
Devo andar via da qui. Lasciare l’isola, varcare questo mare. Devo abbandonare questo posto , la riva dove sto seduto e dove, da un po’ di tempo, vengo tutti i giorni. Oggi ci sei anche tu con me. Personcina minuscola, infagottata nel piumino blu con il cappuccio. Seduti vicini, tu osservi i tuoi stivali di gomma comprati ieri. Te ne stai composta e mi ascolti. Non mi interrompi, né mi tempesti con le tue tante domande, oggi. Di tanto in tanto però, mi attraversi con lo sguardo limpido dei tuoi tre anni. Forse saprai capire, più di tutti gli altri. Prendi un sasso, lo lanci più in là. In questo tratto la costa è disseminata di sassi grandi e piccoli, come se un’esplosione avesse lanciato frammenti di roccia ovunque, simili a meteoriti. Niente sabbia, o ghiaietta, o ciottoli levigati; il mare si sbriciola tra i sassi, in pozzanghere salmastre. Devo andar via. Abbandonare questo silenzio, questa luce sospesa tra cielo e mare, che li coglie entrambi e poi del cielo si appropria, e sul mare riverbera. Respiro la salsedine, ne sento il gusto, il profumo. Quando sono arrivato qui per la prima volta, conoscevo già ogni cosa. Mia madre me ne aveva parlato tanto. Me ne parlava davanti a un altro mare, su lunghe spiagge di sabbia dorata.
“ Nella nostra isola – diceva – tra la terra e il mare, sono cresciute colonie di sassi di ogni forma e dimensione. Sulla riva non si può correre, non ci si può sdraiare. Si può solo stare seduti e guardare l’orizzonte.“ Io la incalzavo…” raccontami di quando camminavi sui sassi…”
Lei rideva…”ancora? ”
“ Sì “, e aspettavo impaziente l’immagine che scaturiva dalle sue parole.
“Da piccola, volevo riuscire a camminare sui sassi, come fanno i fachiri sui chiodi, e una volta mi sono anche tagliata un piede, ma continuavo a provare. Nella nostra isola non ci si arrende. ”
Lei diceva “ la nostra isola” perché era là che lei mi aveva concepito, e dunque quello scarto di terra in mezzo al mare, apparteneva anche a me. Io e mia madre. Sapevo tutto di lei e di me. Della famiglia, e di tutti quelli che dicevano “ questo è bene e questo è male “. Sapevo anche di lui, ma troppo poco.
Era arrivato alla trattoria in un giorno di pioggia. Aveva chiesto ” a che ora si mangia qui? “
Parlava con un accento straniero, forse inglese. Voleva anche una stanza e la possibilità di una doccia. Lei lo osservava, mentre lui scaricava pesantemente lo zaino a terra. Non rasato da giorni, la giacca impermeabile e un cappellaccio che grondavano acqua. Aveva l’aspetto di Acab, o di un pirata inciampato nell’isola per sbaglio.
“ Si mangia tra poco – aveva risposto – ma non abbiamo stanze. Più avanti c’è un’ affittacamere.”
Lui la osservava apparecchiare i tavoli della sala da pranzo. Lei si muoveva fluida, la veste azzurra, i capelli scuri che le ondeggiavano intorno al viso. Occhi come lagune. Lui pensò a una Allegoria, o a una divinità del mare, tenuta prigioniera per amore. Amore, che sconquassa le esistenze e si confonde con la passione.
Non avevano più parlato. Lui si era seduto e aveva pranzato.
Il giorno dopo era ancora alla trattoria, e il giorno dopo ancora, e quello seguente. A volte, mentre aspettava di essere servito, si metteva a scrivere. Estraeva dallo zaino un blocco di fogli e scriveva; aveva una calligrafia veloce, quasi incomprensibile, che lei amava sbirciare, ma inevitabilmente incontrava i suoi occhi. Loro si guardavano e già si appartenevano. Il padre e la madre di lei, preoccupati, li studiavano osservandoli dalla cucina o dal banco del bar.
“ Ma quello cosa vuole? “, chiedevano alla figlia.
“ Non lo so “, rispondeva lei, poi si poneva una mano sul seno, all’altezza del cuore,
immaginando. Al quarto giorno, lui chiese al padre di lei dove avrebbe potuto trovare un lavoro; qualsiasi cosa, per racimolare un po’ di soldi e ripartire. Il padre della ragazza rispose torvo…” qui di lavoro ce n’è ben poco, e su quest’isola siamo già abbastanza.”
Lui non si scoraggiò, andò al porticciolo e non passò molto, che là trovò da fare. Alla trattoria non andò più.
La sua assenza fu accolta con un sospiro di sollievo, anche da lei. Non si sarebbe più sentita costantemente controllata, e nel giro di pochi giorni nessuno avrebbe più pensato a quello sconosciuto. Intanto ipotizzava di fuggire lontano, appena lui glielo avesse chiesto. Lo avrebbe fatto con un messaggio, scritto in qualche modo, da qualche parte. Un posto, un’ora. L’ultimo giorno che era venuto a pranzare alla trattoria, lei gli aveva servito un piatto di pasta; lui le aveva sfiorato una mano e le aveva passato un cartoncino. Era il biglietto del passaggio in traghetto. Sulle scritte del biglietto, seguendo un percorso indicato da una serie di lettere cerchiate, lei aveva letto: “ al faro, alle cinque. “ Poi nessuna promessa. Solo le loro mani intrecciate, i corpi stretti uno all’altro, assetati. Lei non era mai stata di nessuno, ma questo non lo trattenne. Era trascorso un mese da quando era arrivato all’isola e, come aveva stabilito, messo in tasca quel po’ di denaro lui comprò un altro biglietto e ripartì. Neanche le aveva detto addio. Lei non sapeva che un addio mai pronunciato avrebbe fatto tanto male, e ogni giorno sperava di vederlo tornare. Una sera attese che anche l’ultimo cliente avesse lasciato la trattoria. Attese che suo padre chiudesse la porta a vetri e mettesse gli scuri con la solita esclamazione stanca.. “anche per oggi è finita! “. Attese che sua madre dalla cucina chiamasse il marito a darle una mano ; allora abbandonò le sedie rovesciate sui tavoli della sala, andò da loro, chiuse gli occhi e in un fiato disse …” sono incinta.”
Lei mi aveva tenuto nascosto il più a lungo possibile, ma io ero lì, con il progetto invisibile di esistere. Da quel momento diventammo una cosa sola. Ancor prima che io nascessi, lei mi raccontava favole in cui ero sempre il protagonista. Un piccolo viaggiatore solitario, venuto da chissà quale pianeta. Un “ Piccolo Principe “ che aveva scelto lei per fermarsi. All’annuncio, sua madre cercò con gli occhi una sedia e, quasi barcollando, ci si buttò sopra. Sillabò…” cosa? “, poi si mise le mani nei capelli. “Che vergogna…che vergogna”, ripeteva all’infinito, con un lungo lamento.
Suo padre diede un pugno al muro, poi un altro. “ Ci avrei scommesso! “ gridò e uscì fuori dal retro, sbattendo la porta. Il giorno dopo la trattoria rimase chiusa. L’uomo disse alla moglie…”la ragazza andrà a stare da mia sorella.” Aveva detto proprio così, “ la ragazza “, come si parla di un’estranea. Non le rivolse più la parola e nel giro di pochi giorni anche lei lasciò l’isola. Alla notizia della sua partenza, la voce si fece strada serpeggiando. Quando una figlia si allontana dalla casa paterna così di fretta e furia, e senza un apparente motivo, cosa si può pensare? Nessuno parlò dello straniero venuto da chissà dove, ma tutti dissero “ il padre è lui.” Si arrogarono il diritto di portare in giudizio colei che aveva combinato un tale pasticcio. E pensare che sembrava tanto a modo…Tutti le cucirono addosso una verità, prospettarono le conseguenze. Mia madre sull’isola non tornò più. A volte piangeva, perché non poteva dimenticare. Scriveva, ogni tanto, anche se non riceveva risposta. Scriveva soprattutto di me, di come crescevo, come avevo gli occhi, i capelli, il naso…e della mia inestinguibile curiosità per il mondo. A volte scriveva del suo lavoro di cameriera, e concludeva “ stiamo bene, non ci manca niente.” Mentiva, di nuovo, per tenere nascosta la verità il più a lungo possibile. Scrisse anche prima di morire, li pregò di venire a prendermi, e loro vennero. Avevo dieci anni. Vollero riportare sull’isola anche lei. Allora tutti stendevano le mani per toccare la bara di legno chiaro che usciva dalla chiesa. Ipocriti. Io sapevo, e non potevo guardare.
Ho provato ad amarli, i genitori di mia madre, a considerarli la mia famiglia. Loro lo avrebbero voluto. “Questo è il mio ceppo, almeno in parte ”, mi dicevo. Ma se non mi hanno voluto prima, perché adesso? Qualcosa, dentro, mi diceva che era troppo tardi.
Sognare mia madre era diventato lo scopo della mia esistenza. Nel sogno, la nostra storia non aveva né inizio né fine, si riassumeva immobile, come in un quadro, e io rimanevo aggrappato a quell’istante per tutte le ore del giorno. Per rimanere in lei ho cercato di ricalcare le sue orme. Ho lavorato alla trattoria dopo la scuola, ho ispezionato l’isola palmo a palmo, ho percorso all’infinito il sentiero del faro. Ho anche tentato di camminare a piedi nudi sui sassi, in riva al mare. In ogni giovane donna cercavo le sembianze di mia madre, per parlare d’amore. Poi ho creduto di potermi fermare tra le braccia di chi più le assomigliava. Ora, in qualche modo, il ricordo di lei fa meno male, ma sono confuso.
All’ isola non riesco ad abituarmi. Sono rimasto già per troppi anni; adesso non posso più negare l’inquietudine che mi possiede, il richiamo incessante che mi spinge verso lontananze sconosciute, mi fa desiderare mete sempre diverse. Come lui. Un giorno mia madre posò sul tavolo un ritaglio di giornale. “L’ho preso da una rivista che leggevo nella sala d’aspetto del medico “, mi aveva spiegato. Poi lo aveva fatto scivolare lentamente verso di me…” leggi a voce alta, per favore “, aveva detto. Si trattava di un articolo riguardo la pubblicazione di un libro. L’ autore, un antropologo irlandese, in una decina d’anni era approdato a un numero imprecisato di isole, sparse per mari e oceani. Ne aveva studiato l’evoluzione storica e ambientale, confrontando gli insediamenti umani, le tradizioni, le abitudini…ne aveva scritto. Lui appariva in una foto, appoggiato al parapetto di una nave. Accanto l’immagine del libro. Iniziai a leggere titubante. Lei ascoltava e aveva gli occhi pieni di lacrime, ma mi faceva segno di continuare. Alla fine, prese un fazzoletto, se lo passò sugli occhi e si soffiò il naso. “Dobbiamo comperare quel libro “, disse. Non capivo, eppure avevo la netta percezione di vivere un momento decisivo per la mia esistenza. Mia madre guardava le foto sul ritaglio di giornale e continuava a soffiarsi il naso. Sembrava tormentata da una moltitudine di pensieri contrapposti, poi raccolse tutta la forza che aveva e chiuse gli occhi, come faceva sempre quando doveva farsi violenza per parlare. Disse…” lui è tuo padre.” Lui è tuo padre. Si può rivelare una verità così grande, in un momento qualsiasi di una giornata qualunque, davanti a un ritaglio di giornale? Lui è mio padre. Perché non è qui? Sorpresa, incredulità e rabbia. Non era previsto. Niente era stato previsto, certo non il fatto che da un momento all’altro mi sarei ritrovato adulto. Non mi rendevo conto che stavo gridando contro mia madre….” Perché non è rimasto con noi? Perché non mi ha mai cercato? “ Lei non rispose, chinò il capo, nelle spalle un sussulto. All’improvviso mi appariva così fragile…” non lo sa che tu esisti, non gliel’ho mai detto”, confessò. “ Non avrei saputo dove trovarlo.”
***
Alla fine ho fatto a meno di lui. “Lo troveremo. In qualche modo sapremo dove sta.” Mia madre cercava innanzi tutto di convincere se stessa. Poi si è ammalata. Mio padre è rimasto imprigionato nel ritaglio di giornale e con il passare del tempo mi chiedevo…”che avremmo da dirci adesso? “Il filo invisibile che ci univa non ha retto al susseguirsi degli eventi.
Per noi non sarà così. Io e te, piccola mia, siamo stati insieme abbastanza perché tu possa ricordare. Terrai nel cuore il tepore delle tue piccole mani nelle mie, i nostri abbracci, i giochi e questo momento. Sarò lontano ma non mi perderai. Il rumore delle onde sulla riva risucchia le mie parole, che a poco a poco si spengono. Ti alzi dal posto dove siamo seduti e te ne vai qualche metro più in là. Poco dopo vedo che stai tentando di arginare il mare costruendo uno sbarramento di sassi. Tutti, una volta nella vita, abbiamo provato ad arginare il mare. Ti osservo. Scegli i sassi uno ad uno, secondo precisi parametri di cui nemmeno tu forse sei consapevole. Li disponi seguendo la logica di un progetto. Ogni tanto ti volti verso di me ed esclami…“guarda! “ Rispondo con un gesto di totale approvazione e tu prosegui nel tuo lavoro, l’espressione contenta sul visetto concentrato. Poi la tua costruzione subisce un arresto. Rimani ferma ad osservare sempre lo stesso sasso. Lo giri e lo rigiri tra le mani, poi corri verso di me, mi porgi la tua pietra preziosa…” te lo regalo “, dici. E’ un sasso tutto bucherellato, ha l’aspetto di una spugna. “E’ bellissimo. Lo porterò sempre con me, sarà il mio portafortuna.” Allargo le braccia, e tu ci fai un balzo dentro. Ti stringo forte. I miei occhi si spostano sulla striscia che all’orizzonte separa il mare dal cielo.
“ Si è fatto tardi – dico - vieni, è ora di tornare.”